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11 maggio 2009

il kohai parla, il senpai sa

Roberto L. Quercetani mi ha chiesto un "aside" di 2500 caratteri, da inserire nel libro che sta scrivendo sulla storia delle corse ad ostacoli. Ho fatto fatica, sempre meglio scrivere degli altri; comunque eccolo:

"1962, diciott’anni, tutto va in fretta. Quattro gare consecutive, quattro primati personali: 17”6, 16”6, 15”6, 15”2. Da signor nessuno mi ritrovai in un mese il miglior junior italiano. Mi presentarono dopo la gara di Saronno a Sandro Calvesi ed entrai a far parte di quella sua bottega dell’arte che nella nostra atletica non si ripeterà mai più. L’anno successivo, dopo un mezzo inverno al “college” di Formia, 14”2 a Torino, nazionale in Polonia, Giochi del Mediterraneo. Un altro anno ed era già Tokio, finale olimpica sotto la pioggia, occhiali che si bagnano, a memoria dal sesto ostacolo alla fine. Di lì la rincorsa ad un’altra olimpiade, questa volta con medaglia, poi ancora un campionato d’Europa, per ripiombare infine nella vita “normale”.
Tutto così in fretta, ma sarebbe stato impossibile se quel giorno, a Saronno, non avessi incontrato Sandro. Contrariamente a molti soloni tecnici di oggi, che si riempiono la bocca di test, formule e termini scientifici di cui neppure conoscono il significato, Calvesi “sapeva” e noi lo sentivamo. Sapeva guardare, distinguere l’essenziale dall’inutile, isolare i fattori limitanti la prestazione e suggerire il modo, talora gli espedienti, per correggerli. Conosceva toni e parole giuste, il tempo del rimprovero e quello della carezza, quando insistere e quando mollare, metabolizzavi regole e fair play. Gli allenatori imparavano sul campo facendo le cose, senza tensione, senza paroloni difficili. “Se un gesto è bello e armonioso, allora è anche tecnicamente corretto, il brutto è sbagliato”. L’essenziale. Un approccio socratico all’allenamento, inteso come il modo di tirare fuori da ciascuno, atleta o allenatore, tutto ciò che ha dentro. Passione, partecipazione, empatia, alla fine scopri che sai senza avere studiato. L’animale da gara che hai dentro farà il resto.
Era un’altra atletica. Un episodio su tutti: la finale degli europei di Atene nel 1969, la mia ultima gara. Viene dato il via, lo starter spara due volte e mi attribuisce una partenza falsa, che in realtà non avevo fatto (mai successo in carriera). Un’altra e mi avrebbero squalificato, il regolamento non era ancora schiavo dei tempi televisivi. Non protesto e mi rimetto dietro i blocchi, ma Alan Pascoe, l’ostacolista inglese responsabile della falsa, va dallo starter, si dichiara colpevole e mi scagiona. Lo starter (greco) chiama l’interprete e minaccia Pascoe di squalifica se avesse insistito a discutere la sua decisione. Tornammo sui blocchi e vinsi la gara."

15 commenti:

  1. Insomma che te la sei cavata parlando COMUNQUE degli altri, eh? :)

    bel pezzo in ogni caso, godibilissimo, letto con grande piacere.

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  2. La cosa migliore fatta da Sandro Calvesi resta comunque sua figlia Liana, anche se la sua partecipazione alla "fabbrica" dev'essere stata (conoscendo la suocera di Eddy) piacevolissima
    Manlio

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  3. Bello. Sono andato a rivedermi i tempi di Tokyo e ho visto che nelle batterie e nelle semi eri più lento di due altri italiani. Poi, in finale, il botto (e la sfiga: pioggia e medaglia mancata per un decimo...). Il tempo della finale di Tokyo era all'epoca il tuo personale? Nelle batterie e nella semi hai corso al risparmio, oppure è proprio che la finale tira fuori il meglio di te? Ancora: il tempo di Atene è un 13''59 elettrico, mentre a Tokyo è un 13''8 manuale. Con il 13''59 a Tokyo avresti stravinto, mentre a Monaco, tre anni dopo, saresti comunque arrivato quinto e sesto a Montreal. Insomma, perché hai smesso, visto che eri ancora così forte?

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  4. L'ingresso in finale per Giorgio Mazza e Giovanni Cornacchia era un obiettivo difficile da raggiungere ed hanno dovuto spremersi al massimo nei turni eliminatori e in semifinale.
    Salvo errori l'ingresso in finale era invece per me più "facile", per cui ho corso batterie e semi più "controllato", tanto più che il minimo intervallo tra semi e finale (un'ora, se non ricordo male) richiedeva di non massacrarsi prima.
    Il 13"8 della finale era il mio personale (già corso due volte in Europa). A Tokio però il tempo era elettrico arrotondato (una specie di "semi-elettrico"), per cui in realtà fu la mia nuova migliore prestazione.
    Ad Atene il tempo ufficiale comunicato fu 13"5, l'elettrico era di supporto (come a Mexico) e fu in realtà 13"51, in quanto non si compensava ancora la latenza rispetto allo sparo. Le classifiche ufficiali non si fecero con i tempo elettrici.
    A Monaco fui presente come giornalista, a Montreal non andai. I se e i ma non sono di alcuna utilità. Avevo smesso.

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  5. "Elettrico arrotondato"? Spiega, spiega! Robe da matti :-)

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  6. Non vorrei tediare con un discorso tecnico regolamentare, provo a sintetizzare.
    L'omologabilità dei risultati richiede regole e strumenti precisi e l'adozione di un protocollo che faccia sì che un tempo realizzato a Christchurch (Nuova Zelanda), possa essere comparato quanto rilevato a Ulan Bator (Mongolia) o Rovaniemi (Finlandia).
    Gli strumenti di rilevazione ed i regolamenti sono progrediti, o comunque variati, nel tempo. I regolamenti, in particolare, hanno sempre accettato i progressi tecnologici con un certo ritardo, sfruttato per sperimentare a fondo i nuovi strumenti e le procedure del loro utilizzo.
    Nelle grandi manifestazioni (Olimpiadi, europei, mondiali ecc.) affidabilità degli strumenti e applicazione dei protocolli sono (dovrebbero essere...) più garantite. Il software fa il resto...
    A Roma (1960) il cronometraggio era quello ufficiale (manuale) con le sue regole. Quello elettronico non fu mai reso noto, il fotofinish era utilizzato come supporto, "aiuto" per la valutazione dei distacchi, soprattutto nelle gare veloci. Sostituiva, insomma, il filo di lana, posto all'altezza di 4 piedi (circa 1,22) che consentiva ai giudici d'arrivo di vedere chi lo "tendeva" per primo per capire chi aveva vinto.
    A Tokio (1964) i tempi ufficiali furono nuovamente manuali, ma, seppur con un certo ritardo (parecchi anni), anche i tempi elettrici furono resi noti.
    A Mexico (1968) fu ancora così, ma i tempi elettrici furono presto conosciuti.
    A Monaco (1972) i tempi elettrici furono il riferimento ufficiale e i crono manuali divennero di semplice backup nel caso di crash del fotofinish (non chiedetemi perché non si chiama più correttemente photofinish, non lo so). Si adottò il principio dell'arrotondamento (fino a cinque centesimi decimo inferiore, oltre decimo superiore).
    Nel frattempo tutti si erano accorti che i tempo elettrici erano molto più "severi" anche perché non soffrivano della sindrome della lentezza del dito del cronometrista che si traduce in maggiore velocità dello sprinter.
    E' pur vero che i tre cronometristi del primo classificato (il mumero minimo che, per regolamento, doveva prendere il tempo del vincitore), si chiudevano subito dopo la gara in un conclave da cui usciva un "tempo ufficiale" che non si poteva discutere, né sui referti apparivano i tre (o più) tempi registrati da ogni cronometrista. Aggiungo che i rattrappanti Lemania (o Omega, per i più ricchi, comunque si sussurrava che Lemania fosse una sottomarca di Omega) andavano sì per decimi, ma con occhio attento si riuscivano anche a distinguere talora posizioni intermedie, il mezzo decimo.
    Una cosa poi erano i cronometristi di Faenza, altra quelli di Roma.

    (siamo a neppure un terzo del discorso, spetto, continuo a puntate, o faccio un post dedicato?)

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  7. chiaro che non sono riuscito a sintetizzare, ah ah

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  8. e a chi interessa?

    (rimangono alcuni capitoli: la compensazione del tempo elettronico, il semi-elettrico, come capire i tempi del passato, come si ruba, quando si può capire chi ha rubato ecc.)

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  9. Grazie per le spiegazioni. Ma mi interesserebero le descrizioni ulteriori, se non è troppo tedio per te scriverle.

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  10. finora più che spiegazioni penso di avere in trodotto complicazioni...

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  11. Anche io, che di atletica non capisco un cazzo, sono rimasto affascinato dalle precisazioni di Eddy sulla rilevazione dei tempi, e avrei continuato a leggere se lui non avesse interrotto le sue spiegazioni per quel suo tipico (e adorabile) timore di apparire troppo colto e preciso.
    Non è possibile essere sintetici, in certe cose. Altrimenti non vale neanche la pena cominciare a spiegarle.
    Ma trovo assolutamente affascinante imparare a 63 anni l'altezza del filo di lana (1,22 misura adatta all'altezza media degli uomini ottocenteschi: meno male che non c'è più, perché se ci fosse ancora i corridori, invece di chinarsi per piegarlo col petto dovrebbero prendere il Viagra e poi eseguire una spinta pelvica tipo danza del Limbo...), trovo interessante e lodevole la cautela con cui la Federazione Internazionale "collauda" le innovazioni tecniche prima di introdurle nei regolamenti, cautela già dimostrata nel precedente "conclave" fra cronometristi (altro dettaglio interessantissimo) prima di comunicare il tempo del vincitore... Insomma, per chi amava smontare le sveglie per vedere com'erano fatte dentro il discorso di Eddy è una pacchia.
    Manlio

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  12. Manlio,

    in realtà l'altezza del filo di lana non è esattamente 122cm, bensì 4 piedi (121,92cm), idem dicasi per la larghezza di una corsia. L'ostacolo dei 400 e la siepe sono alti 3 piedi (91,44+), il peso e il martello pesano 16 libbre (7,2575+kg) ecc.

    L'atletica moderna è nata ad Oxford, nella seconda metà dell'ottocento, su quell'immenso prato delimitato a nord dai vari colleges universitari (dall'orto botanico al Christ Church College, dove Lewis Carroll aveva insegnato matematica), e a sud dalle anse del Tamigi che si snoda pigramente (il tratto dei tre uomini in barca).
    I vari colleges sono separati solo da una bella e bassa siepe che va da ogni edificio fino alla sponda del fiume. Quelli erano gli "impianti sportivi" delle università.
    L'atletica nacque lì, come alternativa alle arti marziali dell'epoca (cavallo, scherma, lotta, tiro, sollevamento pesi ecc.). Tutte le misure furono perciò definite in yards, piedi, pollici, libbre e così le trovò Pierre de Coubertin (sollevatore di pesi oltre che barone) quando, visitando Oxford, scoprì che esistevano certami volutamente svincolati dall'allenamento per la guerra, se ne innamorò e concepì l'idea delle olimpiadi. Si precipitò a rivenderle in Francia al vescovo di Parigi, che fu per le Olimpiadi moderne ciò che Urbano II era stato per le crociate e Bernard de Clairvaux per l'Ordine del Tempio.
    Tutte cifre tonde. Le corse erano lunghe 100 yards, 120 yards ad ostacoli, 220 yards (il "furlong"), 440 yards (quarto di miglio), 880 yards (mezzo miglio), un miglio (1760 yards). La staffetta regina misurava 4 x 440 yards (il "mile relay" o staffetta del miglio, come ancora si chiama oggi la 4 x 400).

    Perché nei 110 ad ostacoli la prima barriera è a 13,716 metri dalla partenza, l'intervallo tra gli ostacoli è di 9,144 metri e la distanza dall'ultimo alla fine è di circa 14,02 metri, e le barriere sono alte 1,0668?
    Chi è il pazzo che ha definito tutto ciò?
    Un tranquillo inglese che concepì una perfetta simmetria: 15 yards dalla partenza al primo ostacolo, 10 yards tra le barriere, 15 yards dall'ultimo ostacolo alla fine. E' in metri e cm che diventa un casino. Poi la gara fu allungata a 110m, si allungò la distanza tra la decima barriera e la fine, e si perse la simmetria.
    e, incidentalmente, l'ostacolo da 1,0668 è semplicemente tre piedi e sei pollici...
    Insomma, in realtà tutte cifre tonde, ma in un altro mondo.

    Dal 1928 alle olimpiadi gareggiarono anche le donne e tutte le loro misure furono stabilite da subito nel sistema metrico decimale. Una noia...

    Per farvele a fette fino in fondo ricordo che oggi, per poter risparmiare (il materiale delle piste è costosissimo), le corsie possono essere ridotte fino a 117cm (e cm sono...).

    (non ho seguito la regola di Leo Pestelli ed ho scritto al plurale colleges e yards, scusatemi, non mi veniva proprio)

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  13. cronometraggio - 2

    Con il cronometraggio manuale il conclave (nello sprint, poiché nel mezzofondo il problema era assai più semplice) si svolgeva così:
    1 - i cronometristi che avevano preso il vincitore (almeno tre) confrontavano i tempi. Se tutti i tre tempi erano uguali (esempio 10"4, contava il decimo di secondo...), si comunicava quel tempo (10"4), salvo che ai giudici paresse impossibile che quell'atleta fosse andato così forte (vedi sotto);
    2 - se uno aveva preso 10"3, uno 10"4 e uno 10"5, si sarebbe potuto dare 10"4 (la media) o 10"5, spesso, di nuovo, in funzione dell'atleta, sconosciuto ("scartiamo il più basso, forse un errore, e teniamo il più alto, chi è 'sto qua, qui non regaliamo niente, che non si monti la testa, se è forte lo dimostrerà altrove") o conosciuto ("10"4 gli tocca, anzi, che ti sia sbagliato tu che hai preso 10"5, non sarebbe il caso di dargli 10"3? tanto l'ha già fatto parecchie volte");
    3 - se i tre tempi erano ancora più distanti (che so, due 10"5 e un 10"2) la faccenda si complicava. Si chiedeva al dito più lento (alla partenza) e più veloce (all'arrivo del West se aveva fatto la revisione obbligatoria del cronometro nei termini, se il cronometro non gli era caduto nel lavandino, se aveva proprio schiacciato al fumo e non al suono dello sparo, se non aveva esagerato nel premere prima del filo ecc. poi si decideva "a buon senso"...);
    4 - se l'atleta faceva un tempone, un primato, confermato da tutti e tre i cronometri, si poteva sia riconoscerglielo, sia alzare il tempo di uno o due decimi ("se no poi dicono che qui non siamo abbastanza severi"), e anche qui la notorieta dell'atleta (da sconosciuto a campione) giocava un ruolo importante.

    La tecnica di cronometraggio manuale prevede, infatti, che il pulsante del cronometro sia schiacciato appena si vede il fumo e non quando si sente lo sparo (la luce viaggia più rapida del suono, su cento metri ci sono quasi tre decimi di differenza). Si deve poi premere il pulsante all'arrivo mezzo metro prima del passaggio dell'atleta sul filo, per azzerare il ritardo meccanico del cronometro. Bisogna essere freddi e allenati, in un certo senso, specializzati, a prendere i tempi dello sprint. I cronometristi fanno però parte di una federazione autonoma, un giorno vanno al ciclismo, un giorno allo sci, un giorno al cross, possono sbagliare anche loro, e il loro comportamento non è così omogeneo sul territorio. Alle grandi manifestazioni venivano all'epoca però cronometristi bravi, selezionati, specialisti dello sprint. I tempi erano più precisi che nei campetti di periferia, ma il rito del conclave, mutatis mutandis, era lo stesso.
    Rammento la Pasqua dell'Atleta del 1963: Arena di Milano, 200 ad ostacoli. Tutti i big: Morale, Mazza, Cornacchia, Frinolli, Sar e uno scheletrico sconosciuto con gli occhiali (io).
    All'arrivo piombo sul filo davanti a Morale (fresco primatista mondiale dei 400hs).
    Di qui in avanti mi lancio in supposizioni.
    Il conclave, allargato ai giudici d'arrivo (sono loro che dicono chi ha vinto, i cronometristi si limitano a stabilire il tempo) dovrebbe essersi svolto più o meno così: "come fa 'sto ragazzino a battere Morale? E poi la gara è stata organizzata praticamente per lui, primatista mondiale, premio scelto apposta, stampa, pubblico ecc. Il giovane avrà tempo di mostrare quello che vale, se son rose fioriranno. Per consolarlo diamogli lo stesso tempo di Morale (senza centesini non esisteva allora parità, si arrivava "a spalla")".
    Salvo che l'indomani, su tutti i giornali, la foto mostrò chiaramente che avevo vinto io. La moviola (fisica e concettuale) era da venire, il responso di giudici e cronometristi non si poteva discutere. Per consolarmi vinsi successivamente tutte le gare di 200 ad ostacoli della mia vita, tutto sommato non è andata male.

    C'erano poi località in cui il cronometraggio era in un certo senso "integrato" con gli organizzatori della gara. Come dire che in alcuni meeting, oggi scomparsi, magari non davano bei premi, ma riuscivano a "farti fare" dei bei tempi.
    Altrove c'era il mito da rispettare. Erano i tempi in cui a Zurigo lo starter (Alfred Pern, se non ricordo male il suo nome) era soprannominato "Zaccaria, pronti...via...! Ogni anno, a Zurigo, si doveva fare un primato del mondo. Nel 1960 Zaccaria inciampò nell'incredibile 10"0 di Armin Hary e fu perciò relegato nel museo delle cere. Resuscitò poi, ma sotto tutela. Giorgio Mazza mi raccontò come Martin Lauer nel 1959 aveva fatto il primato mondiale (13"2 sui 110hs) proprio a Zurigo.
    "Prima della gara Lauer disse a tutti (Mazza parla perfettamente tedesco): "appena sentite "fertig" (pronti), partite subito, Zaccaria non sparerà nessuna falsa". Pensai che ci volesse fregare, per provocare un po' di nostre false e confondere lo starter (più di tante non sta bene farne...). Furbo, al "pronti" rimasi nei blocchi, tutti andarono via come lepri. Li seguii in ritardo, partendo comunque prima dello sparo, e feci anch'io il mio primato, allora nuovo record italiano."
    A Zurigo Lauer fece così il nuovo primato mondiale. Qualche giorno dopo, a Berna (un meeting che non c'è più) altri svizzeri fecero fare 13"2 anche a Lee Calhoun, come parziale indennizzo.

    Resta il fatto (e qui chiudo questa puntata) che in assoluto, fuori dal regolamento, il tempo "vero" di un atleta è quello che intercorre da quando il fumo esce dalla pistola a quando il suo petto taglia la linea del traguardo all'altezza di 4 piedi, oggi diventati nel fotofinish più o meno l'altezza del tratto di tronco tra capezzoli e spalle.
    Poi arrivò la tecnologia con il crono elettrico. Perché, se elettronica e fotofinish consentono di stabilire il tempo esatto assoluto, si introdussero le famose compensazioni e/o arrotondamenti?
    Alla prossima puntata.

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